Lilybaeum ci chiama ancora

Lilybaeum ci chiama ancora

di Lorenzo Nigro*

Prof. Lorenzo Nigro

Proprio nel giorno in cui ci lascia un grande archeologo Marsalese, Giuseppe Pucci (1948-2021), professore di Archeologia Classica a Siena sino al 2011, giunge dalla sua città natale la notizia di una nuova impressionante scoperta. Sì perché l’antica Lilybaeum, la città che guarda la Lybia, ossia l’Africa, è ancora tutta lì, preservata sul capo Boeo, a guardia della cuspide occidentale della Sicilia. Il piccolo centro trasformato in un grande porto del Mediterraneo dopo la terribile distruzione di Mozia del 397 a.C., la città “splendidissima” secondo Cicerone, continua a rialzare la sua voce, perché non solo i suoi abitanti, ma tutte le persone che hanno a cuore il Passato e le sue vestigia, chi ama la Sicilia, l’Italia, e perché no, anche l’Europa e il Mediterraneo, possa conoscere la vicenda storica e le testimonianze monumentali di quello che fu uno dei porti più forti e attivi del ‘mare di mezzo’, capace di resistere a Pirro e ai Romani, cedendo a Roma solo in quel fatidico 10 marzo del 241 a.C. quando Gaio Lutezio Catulo, riuscì con uno stratagemma a sconfiggere Annone, il Trierarca a capo della flotta cartaginese, conquistando così l’intera Sicilia e ponendo fine alla prima guerra punica.

La ricchezza della città di Lilibeo, favorita da un territorio ferace e dal suo porto già usato dalla vicina Mozia, la più antica fondazione fenicia in Sicilia, fu nell’antichità impressionante ed è rimasta sepolta in un’area archeologica ancora in gran parte da scavare, sebbene abbia già restituito (anche grazie alle esplorazioni magnetiche di Giuseppe Pucci, Marisa Famà e Rossella Giglio e agli scavi di Pierfrancesco Vecchio) tratti di fortificazioni monumentali, residenze patrizie, luoghi di culto e quello straordinario monumento che è l’antro della sibilla sotto la Chiesa di San Giovanni Battista dove nel gennaio del 2005 la Soprintendenza di Trapani rinvenne la straordinaria statua della Venere Callipigia.

Porto fiorentissimo, città aristocratica, con grandi ville a peristilio decorate da mosaici e stucchi, capace di fondere in maniere colorata e originale il linguaggio (la scrittura) e le tradizioni fenicie e puniche con il mondo greco e dei Greci di Sicilia, in una congerie culturale luminosa e affascinante, che non può essere meglio sintetizzata dalla collezione di stele funerarie dipinte che oggi si ammirano nel Museo Archeologico del Baglio Anselmi. Melograni sgargianti, caducei, colonnine e ghirlande incorniciano ricchi personaggi rappresentati al banchetto, in vesti preziose. Ai lati il segno di Tanit, la Astarte piangente cartaginese, ci ricorda che questa fu una città libera di mescolare tradizioni millenarie e di fare di questa cifra il segreto di relazioni che, nel Mediterraneo dei secoli che precedono la nascita dell’Impero, fruttarono prosperità e – perché no? – felicità ai Lilibetani, almeno a giudicare da quanto poterono rappresentare e dalla grazia e fastosità delle loro tombe e dei corredi che in esse riposero. Le stelle, il cibo, il commercio fenicio, le origini ancestrali in Oriente, la cultura, gli ordini architettonici e il pensiero dei Greci, l’organizzazione e l’agricoltura di Roma, questi elementi si fusero e produssero lo splendore ricordato da Cicerone.

Su tutto questo, un gruppo di giovani archeologi, impegnati nel lavoro quotidiano della tutela, insieme agli operai che dovevano riparare la rete fognaria, hanno acceso nuovamente i riflettori, semplicemente non accontentandosi di fare il loro dovere, ma sforzandosi di fare qualcosa in più: restituire a tutti noi la consapevolezza di quanto possa essere ogni volta sorprendente conoscere il Passato attraverso l’archeologia. 

Quando gli operai hanno sentito uno strano suono provenire dal terreno sotto i loro piedi, gli archeologi hanno subito capito di che si trattava, perché Marsala è famosa per le sue necropoli. La città moderna infatti sorge sopra al banco di roccia calcarenitica. Da diversi mesi, l’èquipe coordinata dalla Soprintendenza di Trapani, con la direzione scientifica dell’archeologa Giuseppina Mammina, e gli archeologi Sharon Sabatini (SAMA Scavi Archeologici) e Sebastiano Muratore (della ditta esecutrice Venezia S.r.l.), aveva identificato un sepolcreto punico (IV-III secolo a.C.), portando alla luce nello strato subito sotto il piano stradale e fino a circa -3,40 m una cinquantina di tombe a fossa di inumati. Una classe media agiata, ma non particolarmente ricca. Poi, improvvisamente la consapevolezza che quel vuoto doveva essere un pozzetto più ampio, per una tomba più monumentale. Il pozzetto rettangolare (0,66 x 2,04 m) conduceva ad una tomba scavata in profondità fino ad 8 m sotto il piano stradale, con due camere funerarie quadrangolari e cinque inumati, una famiglia: tre adulti e due bambini, la prima generazione di lilibetani, sepolti verso la metà del IV secolo a.C. Ceramiche e oggetti in metallo confermano questa datazione. La tipologia della tomba inoltre è tipica delle necropoli puniche del Mediterraneo centrale, con confronti a Cartagine e in Sardegna, segno di un’unità culturale raggiunta nel mondo cartaginese, laddove i riti legati alla morte restano i più identitari per una comunità che – come ho scritto – era permeata dall’influenza greca, siceliota e romana.

Ma le tombe continuarono ad essere scavate in quel punto, dove la roccia evidentemente era protetta da infiltrazioni e facile da tagliare. Così diverse tombe furono collegate su più livelli a formare un secondo grande ipogeo di 35 mq. Qui lo scavo deve essere stato davvero complesso, per via dei ripetuti interventi, tagli e riusi. È il momento della stratigrafia, lo strumento che gli archeologi utilizzano con scientifica precisione per determinare l’esatta successione degli eventi e ricostruire la storia, scritta nel sottosuolo. L’ipogeo composito fu dunque utilizzato per almeno sette secoli, fino all’èra cristiana, quando ancora Lilibeo era all’avanguardia, con le prime comunità di giudei cristiani e paleocristiane che fiorirono dal II secolo d.C. in avanti. Non possiamo non ricordare l’ipogeo di Crispia Salvia, scoperto da Rossella Giglio, o la stessa straordinaria trasformazione della grotta della Sibilla con il suo culto ad Astarte-Tanit/Afrodite/Venere, che diviene la Chiesa di San Giovanni Battista con le sue acque taumaturgiche.

Ci colpisce lo stato di conservazione di queste tombe, la sovrapposizione e l’intreccio di tante generazioni e di tante culture: le lucerne trovate sono puniche, romane nella classica sigillata africana, ma anche giudaiche e paleocristiane. Ancora una volta la storia millenaria e varia della Sicilia ci arricchisce l’anima. Dobbiamo essere grati alla Soprintendenza di Trapani per svolgere il suo compito nel migliore dei modi, coniugando la tutela con la ricerca scientifica, sapendosi avvalere di questi giovani archeologi così brillanti: all’architetta Mimma Fontana, attuale Soprintendente, al suo predecessore Riccardo Guazzelli, e all’Assessore Alberto Samonà, che ha saputo cogliere tutto il valore di questa scoperta.

Resta aperta la sfida – rivolta a tutti noi, dal Comune di Marsala, ai suoi abitanti, di come rendere il patrimonio archeologico di Lilibeo, così eclatante e ben conservato, sempre più protetto, valorizzato e apprezzato al livello nazionale e internazionale.

* Lorenzo Nigro è Professore di Archeologia del Vicino Oriente antico e Archeologia fenicio punica all’Università di Roma «La Sapienza» e direttore della Missione archeologica a Mozia