Stretta al contante, stretta alla libertà

Stretta al contante, stretta alla libertà

di Riccardo Rubino

Problema: evasione, lavoro sommerso, corruzione e riciclaggio di denaro sporco sono le piaghe che affliggono questo Paese e ne impediscono il pieno sviluppo. Soluzione: poiché la circolazione del contante è la circostanza che consente a questi fenomeni di manifestarsi, allora occorre impedire che il contante circoli; la tracciabilità delle transazioni – infatti – è un efficientissimo sistema per sapere “chi” paga “chi” e per “cosa” paga.

In un mondo semplice, che obbedisce alla logica binaria del “vero/falso”, ogni soluzione è di per sé cosa positiva, e da cose positive non possono che derivare conseguenze positive.

Purtroppo, però, la situazione è sempre un po’ più complessa, perché la realtà che viviamo segue regole spesso oblique, tant’è che sono secoli che facciamo i conti con le “conseguenze non intenzionali ad azioni intenzionali”. Detto in altri – e ben più pecorecci – termini: tutta la nostra vita è afflitta dal rischio endemico di “tirare p’u porco e ‘nzittare ‘u purcaro”. Cosa fare, dunque? Cercare il più possibile di valutare le eventuali conseguenze negative di una azione che riteniamo positiva.

La stretta al contante è un bene o un male?

Per rispondere a questa domanda occorre prima fissare un principio, valutare le esperienze altrui e, infine, giudicare se la stretta al contante è azione che vale la pena intraprendere.

Il principio lo ha enunciato il 25 aprile 2019 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva”. Sfido chiunque a dissentire. Ebbene: il contante (ossia uno dei modi in cui ci rapportiamo con il “bene” per eccellenza, ossia denaro) garantisce – senz’altro – una  certa libertà che deriva dall’immediatezza del rapporto che lo lega al portatore e dalla riservatezza che la non-tracciabilità assicura. Isoliamo questi due elementi: immediatezza e riservatezza. Cominciamo dal primo.

Il rapporto con il contante è immediato nel senso che tra me e la disponibilità dei miei soldi non si mette nel mezzo nessuno che possa eccepire alcunché: io c’ho i soldi nel portafoglio, lo apro e caccio fuori il denaro per acquistare beni e servizi. Nel momento in cui, però, tra me e il mio denaro si intromette un intermediario, quale è la banca, allora la questione si complica. E ciò per una serie di motivi di non indifferente gravità.

Innanzi tutto, i soldi versati nel conto corrente non sono di proprietà del correntista, ma della banca che ne diventa proprietaria e che si obbliga a restituirli a richiesta con la maggiorazione dovuta al tasso d’interesse. Questo significa che in caso di collasso del sistema bancario, i soldi rischiano di volatilizzarsi. Certo, è vero che esistono i fondi di garanzia, ma è altrettanto vero che questi sistemi di tutela sono calibrati su scenari “normali”. Ora di “normale”, in ciò che viviamo, non c’è più nulla: a qualche migliaio di chilometri ad est c’è la guerra. Immaginate le banche in uno scenario di guerra che si va sempre più espandendo: roba da perdere il sonno.

In secondo luogo, basta un click per spogliarvi di tutti i vostri soldi, e questo apre scenari ancor più inquietanti. Lasciamo da parte gli “accidenti” come eventuali attacchi hacker e manteniamo i piedi per terra. Lo Stato – e per Stato intendiamo gli uomini preposti al suo funzionamento – vengono messi in grado di annichilire la vita del singolo non tanto attraverso atti giudiziari, ma anche e soprattutto attraverso gli atti para-giudiziari come le misure di prevenzione.

Lo stato attuale della normativa consente di sequestrare il patrimonio sulla scorta di semplici indizi di pericolosità sociale. Oggi, queste misure di prevenzione sono destinate a combattere fenomeni mafiosi, ma nulla esclude che questi sistemi di controllo sociale – in futuro – possano essere usati per reprimere alcune libertà. Parlo di “futuro” guardando all’Italia, perché da altre parti questo è già “presente”. Dove?

In Iran, ad esempio, dove il Governo, a tutela della moralità pubblica, prima avverte le donne senza velo di rientrare nei ranghi con un SMS e poi… blocca loro i conti correnti. 

E se pensate (con il giusto sdegno) che queste cose accadono solo in luoghi esotici del mondo, dove l’etica occidentale non mette piede, sappiate che l’occidentalissimo Presidente del Canada – Justin Trudeau – lo scorso febbraio ha invocato l’Emergency Act: legge speciale con la quale ha represso la protesta dei camionisti attraverso – sì, sì, proprio così – il blocco… dei conti correnti.

E in Italia? Al blocco dei conti nei confronti di chi manifesta non ci siamo certo ancora arrivati, ma vale giusto la pena riportare che un signore di nome Stefano Puzzer s’è beccato la misura di prevenzione del “foglio di via” per aver protestato, seduto su una seggiola in solitudine, a Piazza del Popolo a Roma contro il GreenPass.

Riservatezza. La riservatezza è presidio di libertà e, in fondo, questo lo dice pure la nostra Costituzione. Art. 48, leggiamo che: “il voto è… libero e segreto”, cioè libero in quanto segreto. Non esiste libertà ove ogni aspetto della vita è sottoposto ad un controllo: lo sapeva bene la STASI e lo sa bene ora la Cina. Noi, invece, viviamo una schizofrenia spaventosa: da un lato, ci preoccupiamo dei coockies affinché la nostra navigazione su internet sia il più possibile anonima; dall’altro – però – non alziamo ciglio di fronte all’annotazione contabile da parte di un privato (la banca) di ogni transazione effettuata attraverso un bancomat o una carta di credito. Se ciò che cerchiamo su Google definisce ciò che siamo, non meno lo fa ciò che compriamo: dallo studio delle nostre spese si riesce a tratteggiare un quadro abbastanza approfondito della nostra personalità e della nostra vita. In fondo: l’analisi incrociata delle nostre ricerche su internet e dei nostri acquisti consente – davvero – di radiografare la nostra anima: una realtà che sembra il paradiso distopico dei dossieristi alla Edgar Hoover.

E’ almeno da una ventina d’anni che lo Stato continua a girare la vite erodendo alcune libertà in nome della lotta al crimine, e il risultato qual è stato? Pressoché nessuno. Se i media non ci prendono in giro (e sul punto stendiamo veli pietosi), continuiamo nonostante tutto ad avere mafie potentissime, corruzioni allucinanti, economie sommerse pari al PIL del Lussemburgo e non so cos’altro. Allora le cose sono due: o questi giri di vite non servono a nulla; oppure hanno funzionato, e tuttavia conviene alimentare uno stato di emergenza perpetuo che giustifichi ulteriori giri di vite. Il cui fine ultimo – a questo punto – si presenta chiaro nella sua ovvietà: il controllo sociale.

E’ un caso, poi, che queste direttive politiche provengano dall’istituzione che oggi più che mai viene posta in discussione, ossia l’Unione Europea? E’ un caso che il Commissario UE Breton abbia manifestato preoccupazione per la libertà di espressione che il nuovo proprietario di Twitter vuole garantire agli utenti del social network? Siamo arrivanti ad un paradosso: l’Unione Europea, invece di tutelare i suoi cittadini da censure assurde, si preoccupa di chi assicura una loro libertà.

Tiriamo le somme.

Occorre prendere atto di una verità ineluttabile: le società funzionano esattamente come i sistemi termodinamici; essi sono affetti dall’entropia, misura di un disordine in alcun modo eliminabile. Le devianze sociali si manifestano sempre, ad ogni epoca e latitudine. Chi predica ordine e disciplina a 360 gradi sta letteralmente truffando chi lo ascolta, perché promette qualcosa che non potrà mai mantenere: nella migliore delle ipotesi è un cialtrone, nella peggiore – invece – con una mano dispensa illusioni e dall’altro stringe il cappio sul collo dei governati. La dimostrazione sono le frasi di qualche anziano nostalgico: “Quando c’era Mussolini si dormiva con le porte aperte!”. Occorrerebbe chiedergli a quale prezzo, però.

Noi stiamo felicemente cedendo quote importanti della nostra libertà senza rendercene conto. Chiedete in giro: c’è gente che addirittuta rimpiange i lockdown, altri che invocano il carcere anche per i divieti di sosta e altri ancora che impongono nuovi linguaggi che, con la scusa dell’eufemismo, cancellano intere idee. Se imparassimo l’unica vera grande lezione sul punto – e cioè che, salvo occupazioni manu militari, la libertà si perde sempre per abdicazione e giammai per ablazione – staremmo sulle barricate a prescindere dal nostro colore politico.

Purtroppo – e questo è il più grande limite del popolo italiano – il disprezzo che nutriamo nei confronti del nostro “avversario” politico è più forte dell’istinto di conservazione. Saremmo degli ottimi kamikaze.

Riccardo Rubino